L'Olio d'oliva nell'antichità

L'olivo  coltivato o domestico deriva dall'olivo selvatico o oleastro che cresce  nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli  frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato.
I  Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi  diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte  sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel  vocabolario botanico moderno.
La patria di origine dell'olivo va con  ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito  non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che  evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo  olio di sesamo, l'olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come  gli Armeni e gli Egiziani.
Non solo, anche nei libri dell'Antico  Testamento l'olivo e l'olio di oliva sono spesso nominati : basti  pensare che la colomba dell'arca porta a Noè un ramo d'olivo colto sul  monte Ararat, montagna dell'Armenia.
La trasformazione dell'oleaster  in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria.  Molto presto l'uso di coltivare l'olivo passò dall'Asia minore alle  isole dell'arcipelago, e quindi in Grecia: lo Schlieman riferisce di  aver raccolto noccioli d'oliva sia negli scavi del palazzo di Tirino sia  in quelli delle case e delle tombe di Micene e, nell'Odissea, troviamo  scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme  tronco di olivo.
In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti;  particolarmente ricca ne era l'Attica e soprattutto la pianura vicina ad  Atene. D'altra parte l'olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era  stata lei che, in gara con Posidone per il possesso dell'Attica, aveva  vinto facendo nascere l'ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo  onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli  atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato:  si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai  panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse "a maniglia", dette  per questo loro particolare uso, panatenaiche.
L'olio attico era  considerato tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli olii di  Sicione, dell'Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni  della Focile. Le olive costituivano
inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo.
Le  zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell'olivo  erano quelle di Sibari e di Taranto; nell'Italia centrale, si  segnalavano in primo luogo il territorio di Venafro, quindi la Sabina e  il Piceno, mentre nell'Italia del nord erano famose le coste della  Liguria.
L'olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche  costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro  disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l'impiego di grandi quantità di olio.
Le  olive venivano raccolte, a seconda dell'uso cui erano destinate, in  periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto  mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava  di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si  potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi  di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la  massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e  riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.
In Grecia l'olio era generalmente prodotto dai  proprietari stessi degli oliveti che spesso procedevano anche alla sua  vendita; il mercante di olio si chiamava elaiopòles o elaiokàpelos.
La  vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle  botteghe; era ugualmente attiva nell'agorà, dove venivano trattate le  merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili  tende o, più comunemente, all'aperto, ma questa situazione migliorò ben  presto quando furono edificati i primi portici. 
Per quanto riguarda  l'Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva  in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico. Tali  attestazioni non significano necessariamente che già in epoca  preistorica l'olivo venisse coltivato, anche perché all'esame dei  noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure  di olivi domestici. Sono comunque evidenze significative, soprattutto se  inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della  penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all'olivo coltivato. Certamente il passaggio da una fase di  semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo  avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra  sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che  sostengono che l'olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni  greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo  (elaìa), sia il termine etrusco amurca che, nella sua forma greca  amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle  olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia  delle pelli e nell'essiccazione del legno.
Il vero problema, dunque,  non è stabilire a quando risalga la presenza dei primi olivi in Italia,  dato che certamente si trattava di piante che esistevano da molto tempo,  almeno in forme selvatiche, quanto piuttosto definire il periodo in cui  è cominciata la loro coltivazione in età storica, momento importante  che segna l'inizio dello sfruttamento razionale delle campagne, tipico della civiltà urbana.
Le evidenze linguistiche, letterarie ed  archeologiche permettono di affermare che, già fra l'VIII e il VII sec.  a.C. non solo la coltivazione dell'olivo era praticata, ma esistevano  colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto  permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.
Per  quanto riguarda l'età storica esistono anche evidenze paleobotaniche:  sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa,  con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta  "Tomba delle Olive" di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente,  oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una sorta  di caldaia piena di noccioli di olive.
Non è facile ricostruire il  paesaggio agrario dell'Etruria antica: le trasformazioni subite nel  corso del tempo, e soprattutto l'impoverimento e l'abbandono delle  campagne, iniziato in età romana, impediscono di cogliere, in tutti i  suoi dettagli, una situazione che doveva essere comunque piuttosto  fiorente. Anche il panorama offerto dalle fonti antiche va letto con  prudenza, tenendo conto del contesto storiografico di appartenenza in  cui dominavano la memoria di un passato felice e i riscontri di un  realtà contemporanea, quella della prima età imperiale, in cui i caratteri del paesaggio etrusco e i metodi di conduzione agricola erano  senz'altro strutturati in modo diverso.
Per quanto riguarda i  riscontri forniti dall'archeologia, le ricerche condotte in questi  ultimi anni sui vasi-contenitori hanno permesso di analizzare, negli  aspetti complementari di produzione, consumo e smercio, tipi di  agricoltura intensiva quali le coltivazioni dell'olivo e della vite.
Dopo  una prima fase in cui i contenitori di olio deposti nelle tombe  principesche del Lazio e dell'Etruria risultano essere in massima parte  di importazione, nel corso del terzo quarto del VII sec. a.C. inizia una  produzione in loco di questi vasi, destinata nel tempo ad  intensificarsi: si tratta non solo di contenitori di essenze odorose a  base di olio, ma anche di recipienti destinati a contenere olio  alimentare. E' il momento in cui l'olio e il vino da beni preziosi di  marca esotica, inclusi nel commercio di beni di lusso, diventano in  Etruria prodotti di largo uso come attestano appunto i loro contenitori  che diventano frequentissimi nei corredi tombali in età alto e  medio-arcaica: particolarmente diffusi sono i piccoli balsamari in  bucchero e in ceramica figulina, che imitano gli aryballoy e gli  alabastra corinzi di importazione.
Per quanto riguarda l'ambito  alimentare l'olio è sempre stato uno dei prodotti principali  dell'antichità classica. Nel mondo romano non si usava altro condimento  per cucinare, e per condire le insalate si utilizzava l'olio migliore:  particolarmente rinomati erano l'olio verde di Venafro, come attestano  Varrone, Plinio, Orazio e Strabone, e quello della Liburnia in Istria;  pessimo era considerato l'olio africano che veniva usato esclusivamente  per l'illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni,  se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a  contraffare l'olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.
Essendo  poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari  atti a conservarlo, l'olio diveniva rancido molto rapidamente; l'unica  soluzione era dunque salarlo.
Per questo motivo si consigliava anche  di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter  fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in  ogni periodo dell'anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive  quando erano ancora verdi sull'albero e riporle sott'olio.
In epoca  imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più  importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l'inizio che la  fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte  quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
Solitamente  erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento  di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi  e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite  in questo modo, erano pronte all'uso. Inoltre, con le olive più pregiate  e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l'anno e  fornivano un nutriente ed economico companatico. Con le olive verdi si  facevano le colymbadas (letteralmente "le affiorate"), così dette perché  galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due  parti di aceto. La preparazione consisteva nel praticare alle olive,  dopo la salagione, due o tre incisioni con un pezzo di canna, e quindi  tenerle immerse per tre giorni in aceto; poi le olive venivano scolate e  sistemate con prezzemolo e ruta, in vasi da conserve che erano poi  riempiti con salamoia e aceto facendo in modo che restassero ben  coperte. Dopo venti giorni erano pronte per essere portate in tavola.
Un  altro tipo di conserva era l'epityrum che si faceva sempre con le olive  migliori, di solito le orcite e le pausiane: era una salsa molto  saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena ad  ingiallire, scartando quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto  asciugare le olive sulle stuoie per un giorno, si mettevano in un  fiscolo nuovo, cioè in una di quelle ceste di fibra vegetale fatte a  forma di tasca, con un foro superiore e uno inferiore, in cui si  racchiudevano le olive frantumate per poi spremere l'olio; quindi si  lasciavano una notte intera sotto la pressa. Dopo di che venivano  sminuzzate e condite con sale e aromi e, dopo aver messo l'impasto così  ottenuto in un vaso lo ricopriva d'olio.
Vi erano poi le conserve di  olive nere, che si potevano fare sia con le pausiane mature che con le  orcite ed in alcuni casi anche con le olive della qualità Nevia: la  preparazione consisteva nel tenerle per 30-40 giorni sotto sale, poi,  una volta scosso via tutto il sale, metterle sotto sapa defrutum.
Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.
Catone,  Plinio e Columella e tutti gli scrittore latini di agricoltura più  famosi hanno lasciato insegnamenti sulla coltivazione dell'olivo e sulla  produzione dell'olio.
E noto, ad esempio, che l'olio che si otteneva  dalla torchiatura era piuttosto denso e che, per farlo diventare più  fluido, occorreva riscaldare l'ambiente in cui veniva preparato per  evitare che si rapprendesse: è per questo che l'olio aveva spesso odore  di fumo. In qualche occasione, e naturalmente a seconda della  temperatura esterna, era sufficiente che il locale dei torchi (torcular)  fosse rivolto a sud ed esposto ai raggi del sole, anzi, gli esperti  ritenevano che questa fosse la soluzione migliore per garantire la buona  qualità del prodotto. E infatti, nella villa della Pisanella a  Poggioreale, dove è venuto alla luce un interessante esemplare di  torchio da olio, la cella olearia era intiepidita naturalmente, in virtù  della sua esposizione al sole.
Gli autori antichi descrivono  minuziosamente le macchine impiegate dai Greci e dai Romani per la  torchiatura delle olive; le scoperte archeologiche hanno poi permesso di  controllare e di completare le loro testimonianze.
La prima fase  della preparazione dell'olio d'oliva consisteva nello schiacciamento dei  frutti. La mola olearia assomigliava a quella granaria, essendo  anch'essa costituita da due pietre cilindriche, una fissa, il bacino o  sottomola, l'altra mobile, la mola verticale: l'operazione di  schiacciamento era seguita in modo assai semplice, facendo rotolare una  pietra cilindrica avanti e indietro sopra le olive poste in un  contenitore.
Il "frantoio" romano, puntualmente descritto da  Columella (I sec. d.C.) era di un tipo assai simile a quelli usati anche  in età moderna.
Sulla base dei dati disponibili è possibile proporne  una ricostruzione più che plausibile. In dettaglio, gli elementi  componenti la macchina dovevano essere i seguenti:
 
1.   Base in muratura, superiormente concava, per meglio alloggiare la sottomola
2.   Sottomola
3.    Sostegno verticale in legno dove è infilata la stanga. L'inserzione  di questa nel sostegno doveva prevedere la possibilità di regolare  l'altezza della mola per non schiacciare i noccioli delle olive
4.    Disco della mola, costituito da una pietra cilindrica che l'uso  deforma leggermente in senso troncoconico. Il disco è inserito nella  stanga in modo da poter girare sia intorno al sostegno centrale, sia  attorno al proprio asse. Il disco della mola era mantenuto nella  posizione corretta per mezzo di cunei in legno (clavi)
5.   Stanga, la cui estremità è collegata ai finimenti che imbrigliano l'asino sottoposto alla mola.
 
Quando  il perno centrale veniva fatto ruotare, i rulli giravano rapidamente a  una distanza regolabile sopra il recipiente che conteneva le olive era  così possibile separare la polpa senza schiacciare i noccioli
Dopo la  frangitura, le olive venivano pressate. Per questo secondo passaggio in  antico venivano usate presse a trave, simili a quelle usate per il  vino. Sembra che la pressa a trave abbia avuto origine e si sia  sviluppata nella civiltà egea, dove la coltivazione delle olive era già  diffusa agli inizi dell'età del bronzo, ma non si sa con certezza a  quale epoca risalga.
I resti più antichi conosciuti di una pressa e  di un bacino per schiacciare le olive sono quelli rinvenuti a Creta che  appartengono al periodo minoico (1880-1500 a.C. ca.): sono però insufficienti per una ricostruzione dettagliata dello strumento.  Un'altra pressa a trave per olive, risalente al tardo periodo elladico  (1600-1250 a.C. ca.) fu trovata in una delle isole Cicladi. Dopo il 1000  a.C. circa, le presse di questo tipo divennero più frequenti e ne  esistono alcune rappresentazioni, in particolare su vasi attici a figure  nere del VI sec. a.C.
La pressa a trave applica il principio della  leva: un'estremità della trave era appoggiata in un incavo del muro, o  fra due pilastri di pietra, l'altra veniva tirata giù o spesso caricata  con pesi (uomini e pietre). Le olive, sistemate in sacchi o tra tavole  di legno, venivano schiacciate sotto la parte centrale della trave e il  succo era raccolto in un recipiente sistemato sotto il piano della  pressa.
Plinio descrive con molta chiarezza quattro tipi di presse.  La prima è la vecchia pressa trave di cui parla anche Catone (234-149  a.C.) il cui funzionamento è stato però nel frattempo alquanto  meccanizzato. Un'estremità della trave, spesso lunga fino a 15 metri,  era fissata sotto una sbarra trasversale posta tra due pali di legno. Le  olive schiacciate erano ammucchiate sotto questa pesante trave e la  pressione veniva esercitata facendo abbassare l'altra estremità della  trave che era tirata in basso da una fune arrotolata intorno ad un  tamburo del diametro di 40-50 centimetri. Un secondo miglioramento che  permetteva una pressione regolare e prolungata, era attuato nella pressa  descritta da Erone (I sec. d.C.), ma già nota da molto tempo e probabilmente inventata in Grecia. Tale pressa era costituita da un peso  di pietra, una trave e un tamburo girevole, Partendo dalla base, una  corda passava sotto una puleggia collocata sul peso e sopra un'altra  puleggia situata sulla trave, raggiungendo il tamburo. Quando la corda  era avvolta al tamburo la trave riceveva l'intero peso della pietra.
La  massa da pressare era racchiusa in vari modi: dentro fiscoli di corda,  giunchi intrecciati, o cesti. Oppure: "le olive venivano schiacciate  dentro cesti di vimini o mettendo la pasta tra due asticelle" (Plinio).
Le  presse a trave erano particolarmente adatte per operazioni su larga  scala, quando invece si trattava di quantità limitate, come anche nel  caso di semi oleosi, si preferivano altri metodi come la pressa a vite.  Di quest'ultima Plinio dice che sembra sia stata introdotta a Roma verso  la fine del I secolo a.C., ma che era stata probabilmente inventata in  Grecia nel II o I secolo a.C. 
In una versione perfezionata di questo  tipo di pressa, descritta sia da Erone sia da Plinio, la vite solleva  un peso di pietra. Questo tipo, chiamato anche "pressa greca", era  senz'altro in uso a Roma ai tempi di Vetruvio (I sec. a.C.).
Quindi l'olio veniva messo a decantare in vasche che precedevano il lacus destinato alla raccolta finale del prodotto.

G. Carlotta Cianferoni
Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana.